TONY
A volte nel rock può capitare che una rivoluzione totale nel modo di fare e pensare la musica avvenga in modo totalmente involontario: e negli ultimi anni nessuno più degli scozzesi Jesus And Mary Chain, ovvero la creatura dei bizzosi fratellini Reid - William (chitarra) e Jim (voce) - è un perfetto esempio di quanto una semplice, fin quasi banalissima intuizione possa cambiare radicalmente le cose in ambito musicale, specialmente in un periodo in cui il nuovo rock "indipendente" britannico in tutte le sue accezioni (il dark, la electro-wave e il pop-rock melodico e malinconico stile Smiths) stagnava nei suoi stereotipi incapace di sostanziali salti di qualità (a parte le magie intessute dalla 4AD, ma quello era un universo musicale a parte) o peggio tendeva a convertirsi pericolosamente verso i suoni di moda (il synth-pop), con risultati spesso deludenti: quel che è certo è che nessuno sembrava capace di riaccendere i furori e gli ardori del punk, che ormai era riconosciuto all'unanimità come prematuramente morto e sepolto.
Ma quando nell'ottobre del 1984 quattro sconosciuti ragazzini scozzesi pubblicarono il loro primo singolo, "Upside Down", a molti parve possibile un miracoloso risveglio del sacro fuoco dei Sex Pistols. E in effetti nulla in loro tradiva quest'impressione: live-show incendiari, un atteggiamento strafottente e arrogante (con dichiarazioni non lontane dall'odierno ritornello "gallagheriano" del "we're the best rock band ever") e, last but not least, un talento "naturale" per la provocazione gratuita e beffarda (a questo basti solo il nome del gruppo, ma anche testi non propriamente per scolaretti, anzi in certi casi ai limiti dell'hard).
Insomma, i terribili fratellini Reid, e non meno di loro i loro due comprimari, il bassista Douglas Hart e il perennemente ubriaco batterista Bobbie Gillespie (proprio quello che di lì a poco avvierà la fortunata avventura dei Primal Scream), avevano già dato con i loro primi singoli le premesse giuste per diventare i capofila di un "nuovo" punk, che alle regole di base del genere (canzoni veloci e volutamente approssimative, costruite su non più di tre accordi) sapeva unire tanto le atmosfere soffocanti della dark-wave quanto un innegabile talento melodico. Ma ciò che fin da subito contraddistinse il gruppo era il rumore: la chitarra di William Reid suonava infatti distorta all'inverosimile (ma non lontana in realtà dalle sventagliate che dall'altra parte dell'oceano caratterizzavano il nuovo hardcore di Husker Du eMinutemen). In ogni caso, dopo una manciata di singoli, per il gruppo era già pronto il contratto con una major e la possibilità di incidere il loro debut-album, che è appunto "Psychocandy".
E in apertura, a scanso di equivoci, c'è subito il loro capolavoro, il manifesto di tutto un nuovo genere musicale, nonché una delle canzoni più belle di tutti gli anni Ottanta: "Just Like Honey". Gillespie detta il tempo picchiando su percussioni che suonano come catene sferraglianti, Hart si inserisce con una semplice e penetrante linea di basso di matrice dark, finché William Reid lancia i suoi semplicissimi accordi sfigurati dal rumore e Jim con voce spettrale e melodiosa intona una melodia di rara bellezza: e a quel punto il ritmo si apre, e la canzone si trasforma in una memorabile ballata, perfetta e irripetibile commistione tra rumore e melodia.
Il disco non farà altro che innestare variazioni su questo tema (e in certi casi anche a riprenderlo quasi alla lettera, come in "Sowing Seeds"), ora lanciandosi in frenetiche cavalcate vicine ai Ramones ("My Little Underground", "The Living End", "Taste of Cindy"), ora invece rallentando i ritmi fino a lambire i cerimoniali della musica gotica ("Taste the Floor"), ed esaltando di volta in volta ora il versante melodico (con autentici capolavori come "The Hardest Walk", che indovina una cadenza e un'armonia praticamente perfette, e l'acustica "Cut Dead", non lontana dalle ballate visionarie e fiabesche di Syd Barrett), ora il versante rumoristico (con le terrificanti distorsioni di "In A Hole", "You Trip Me Up" e "It's So Hard", che lambiscono quasi le cacofonie industriali).
Nel complesso, il disco è un autentico capolavoro, di eccezionale compattezza e maturità, che porta in sé tutti i "segni" sonori di quel periodo: ci sono il punk supersonico dei Ramones e quello apocalittico dei Sex Pistols, l'hardcore intimista degli Husker Du e le melodie raffinate degli Smiths, c'è il sound claustrofobico del dark e la violenza "metallica". Ma la vera rivoluzione dei Jesus And Mary Chain è altrove: l'importanza di quest'album non sta certo nella semplice idea dell'uso estremo o continuo del feedback, quanto nel risultato finale che è andato completamente oltre le premesse iniziali; nel suo rumorismo estremo e nel suo creativo contrasto con le splendide e semplici melodie intonate con voce suadente da Jim Reid, la distorsione, la violenza e, in sostanza, il furore punk, assumono una valenza che da terroristica diventa catartica. Il grido lancinante dei Jesus non è più rivolto all'esterno, alla società, alla ribellione: è invece completamente interiorizzato e portato a una dimensione più profonda.
È la premessa per la nascita degli "shoegazer", anche se saranno altri gruppi a portare fino in fondo le intuizioni dei Reid: perché è probabile che i Reid stessi abbiano ottenuto da questo disco qualcosa che era ben oltre le loro reali intenzioni e capacità. E i dischi successivi, all'insegna di uno scialbo noise-pop solo occasionalmente capace di rinverdire i fasti di questo disco, sono dimostrazione di come i due fratelli scozzesi a fare una rivoluzione non ci pensassero neppure. Anni dopo arriveranno i My Bloody Valentine a compiere definitivamente ciò che i Jesus And Mary Chain avevano solo iniziato, forse senza volerlo. Ciò che conta comunque è che il loro primo disco è opera di fondamentale importanza nella storia del rock, un album seminale come pochi altri. Ma soprattutto, e semplicemente, è un disco di canzoni bellissime. Ed era questo probabilmente il vero obiettivo dei Reid: entrare nella storia del rock dalla porta principale per la bellezza delle loro canzoni e i due scozzesi l'hanno centrato in pieno, e al primo tentativo: se poi, per essere certi di entrare, quella porta hanno preferito sfondarla a suon di feedback sfibranti, tanto meglio per noi e per tutti i futuri shoegazer.
Ma quando nell'ottobre del 1984 quattro sconosciuti ragazzini scozzesi pubblicarono il loro primo singolo, "Upside Down", a molti parve possibile un miracoloso risveglio del sacro fuoco dei Sex Pistols. E in effetti nulla in loro tradiva quest'impressione: live-show incendiari, un atteggiamento strafottente e arrogante (con dichiarazioni non lontane dall'odierno ritornello "gallagheriano" del "we're the best rock band ever") e, last but not least, un talento "naturale" per la provocazione gratuita e beffarda (a questo basti solo il nome del gruppo, ma anche testi non propriamente per scolaretti, anzi in certi casi ai limiti dell'hard).
Insomma, i terribili fratellini Reid, e non meno di loro i loro due comprimari, il bassista Douglas Hart e il perennemente ubriaco batterista Bobbie Gillespie (proprio quello che di lì a poco avvierà la fortunata avventura dei Primal Scream), avevano già dato con i loro primi singoli le premesse giuste per diventare i capofila di un "nuovo" punk, che alle regole di base del genere (canzoni veloci e volutamente approssimative, costruite su non più di tre accordi) sapeva unire tanto le atmosfere soffocanti della dark-wave quanto un innegabile talento melodico. Ma ciò che fin da subito contraddistinse il gruppo era il rumore: la chitarra di William Reid suonava infatti distorta all'inverosimile (ma non lontana in realtà dalle sventagliate che dall'altra parte dell'oceano caratterizzavano il nuovo hardcore di Husker Du eMinutemen). In ogni caso, dopo una manciata di singoli, per il gruppo era già pronto il contratto con una major e la possibilità di incidere il loro debut-album, che è appunto "Psychocandy".
E in apertura, a scanso di equivoci, c'è subito il loro capolavoro, il manifesto di tutto un nuovo genere musicale, nonché una delle canzoni più belle di tutti gli anni Ottanta: "Just Like Honey". Gillespie detta il tempo picchiando su percussioni che suonano come catene sferraglianti, Hart si inserisce con una semplice e penetrante linea di basso di matrice dark, finché William Reid lancia i suoi semplicissimi accordi sfigurati dal rumore e Jim con voce spettrale e melodiosa intona una melodia di rara bellezza: e a quel punto il ritmo si apre, e la canzone si trasforma in una memorabile ballata, perfetta e irripetibile commistione tra rumore e melodia.
Il disco non farà altro che innestare variazioni su questo tema (e in certi casi anche a riprenderlo quasi alla lettera, come in "Sowing Seeds"), ora lanciandosi in frenetiche cavalcate vicine ai Ramones ("My Little Underground", "The Living End", "Taste of Cindy"), ora invece rallentando i ritmi fino a lambire i cerimoniali della musica gotica ("Taste the Floor"), ed esaltando di volta in volta ora il versante melodico (con autentici capolavori come "The Hardest Walk", che indovina una cadenza e un'armonia praticamente perfette, e l'acustica "Cut Dead", non lontana dalle ballate visionarie e fiabesche di Syd Barrett), ora il versante rumoristico (con le terrificanti distorsioni di "In A Hole", "You Trip Me Up" e "It's So Hard", che lambiscono quasi le cacofonie industriali).
Nel complesso, il disco è un autentico capolavoro, di eccezionale compattezza e maturità, che porta in sé tutti i "segni" sonori di quel periodo: ci sono il punk supersonico dei Ramones e quello apocalittico dei Sex Pistols, l'hardcore intimista degli Husker Du e le melodie raffinate degli Smiths, c'è il sound claustrofobico del dark e la violenza "metallica". Ma la vera rivoluzione dei Jesus And Mary Chain è altrove: l'importanza di quest'album non sta certo nella semplice idea dell'uso estremo o continuo del feedback, quanto nel risultato finale che è andato completamente oltre le premesse iniziali; nel suo rumorismo estremo e nel suo creativo contrasto con le splendide e semplici melodie intonate con voce suadente da Jim Reid, la distorsione, la violenza e, in sostanza, il furore punk, assumono una valenza che da terroristica diventa catartica. Il grido lancinante dei Jesus non è più rivolto all'esterno, alla società, alla ribellione: è invece completamente interiorizzato e portato a una dimensione più profonda.
È la premessa per la nascita degli "shoegazer", anche se saranno altri gruppi a portare fino in fondo le intuizioni dei Reid: perché è probabile che i Reid stessi abbiano ottenuto da questo disco qualcosa che era ben oltre le loro reali intenzioni e capacità. E i dischi successivi, all'insegna di uno scialbo noise-pop solo occasionalmente capace di rinverdire i fasti di questo disco, sono dimostrazione di come i due fratelli scozzesi a fare una rivoluzione non ci pensassero neppure. Anni dopo arriveranno i My Bloody Valentine a compiere definitivamente ciò che i Jesus And Mary Chain avevano solo iniziato, forse senza volerlo. Ciò che conta comunque è che il loro primo disco è opera di fondamentale importanza nella storia del rock, un album seminale come pochi altri. Ma soprattutto, e semplicemente, è un disco di canzoni bellissime. Ed era questo probabilmente il vero obiettivo dei Reid: entrare nella storia del rock dalla porta principale per la bellezza delle loro canzoni e i due scozzesi l'hanno centrato in pieno, e al primo tentativo: se poi, per essere certi di entrare, quella porta hanno preferito sfondarla a suon di feedback sfibranti, tanto meglio per noi e per tutti i futuri shoegazer.
Nessun commento:
Posta un commento